
"Cari amici, a distanza di trent’anni di presenza in mezzo a voi, sento il bisogno di parlarvi con confidenza di fratello e amico, con amorevolezza di padre, con responsabilità di pastore e con lealtà di concittadino che con voi e come voi non si risparmia nel rendere più abitabile il nostro giovane e promettente paese.
È importante parlarsi attraverso la vita. Ritengo, infatti, che un prete, che non parla attraverso la vita e le opere che quotidianamente compie, rischia di assomigliare ai titolari di agenzie di viaggi che illustrano agli altri luoghi straordinari dove, però, loro non ci sono mai stati.
Ecco, io non voglio parlarvi di luoghi sublimi dove non sono mai stato; desidero parlarvi, invece, del mio essere con voi e per voi attraverso la mia vita, perché la nostra sia una condivisione che ci faccia crescere sempre più, come è avvenuto durante questi lunghi anni, in quella “complicità” e “reciprocità” che Sant’Agostino descrive come “docilità del gregge e sollecitudine del pastore”.
Ho messo insieme questi pensieri durante il tempo in cui, come tutti voi, sono rimasto chiuso nella bolla domestica a causa dell’emergenza sanitaria causata dal Coronavirus. Mi piace chiamarlo così e non Covid-19 perché oltre che richiamare l’aspetto simile a una corona del virus osservato al microscopio, l’immagine evoca una sorta di “monarchia virale” al cui potere si è piegato il mondo in questi mesi passati.
Le sciagure si avvicinano spesso prendendo alle spalle la nostra innata fede nella normalità. Con una lievità simile abbiamo osservato il progressivo montare della marea epidemica, partita da lontane sponde cinesi per arrivarci al collo quasi di colpo, dopo settimane di imperturbata spensieratezza, di informazioni minimizzanti e di indicazioni contraddittorie.
Mi sono messo a scrivere per non lasciarmi travolgere dal persistente effluvio mediatico, dalla sua inutile e ansiogena concitazione, dalle maratone televisive, dai talk show ripetitivi e inconcludenti, dalla logorrea emergenzialistica, dalla retorica dell’incoraggiamento (“andrà tutto bene”), dall’inesauribile flusso di immagini dolenti e di informazioni allarmate.
Ho provato a non farmi contaminare dal compiacimento compulsivo che non stacca gli occhi dal metabolismo ipnotizzante della sciagura. Ho avvertito che non dovevo cedere alla suadente melodia delle prefiche mediali. Di fronte alla febbre interpretativa in cui ciascuno voleva essere l’àugure del mondo a venire, ho compreso che avevo solo un appuntamento con me stesso. Non ho ceduto alla tentazione di prostrarmi all’enorme statua del panico pandemico che campeggiava nelle piazze vuote delle nostre città. Per questo ho deciso di ripercorrere questi trent’anni di storie di vita condivise, le vostre e la mia".
Domenico Marrone
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